Le signore giudici di Napoli e Palermo, e poi la
Finocchiaro, la Idem, la Mussolini…tutte le mogli d’Italia inguaiate dallo
sposo a rimorchio “CIELO,MIO MARITO!”
“Cielo, mio marito!” non è più la
conclamata flagranza delle corna, ma il nuovo inciampo familistico della
corruzione all’italiana. A Napoli il marito Guglielmo ha messo in vendita la
sua signora giudice Scognamiglio e a Palermo la giudice Saguto si è messa in
vendita per il suo signor Lorenzo. Per il suo dolce Melchiorre Fidelbo, sotto
processo per un appalto senza gara, la senatrice Anna Finocchiaro aveva mancato
il Quirinale. Per il suo Gugliemo Josefa Idem perse il governò della canoa .Per
le mascalzonate del suo Mauro, Alessandra Mussolini non ha più la legittimità
politica all’intransigenza, sia pure vajassa. E così ‘La Sua Signora’, che era
il titolo del libro-riassunto dell’Italia di Leo Longanesi, il lato debole del
borghese in carriera, oggi diventa “Il Suo Signore”, la fragilità maschietta
della donna realizzata, la dimensione parassita dell’ex macho ridotto a
trafficare nel nome della moglie. Insomma, tutto è ormai sottosopra in Italia:
oggi la moglie ingravida il marito, e il marito rovina la carriera della
moglie.
Il “cielo, mio marito!” più ricco di suggestioni è, come si addice alla città
dell’astuzia e del divertimento, quello di Napoli, che è ancora la Napoli
milionaria di Eduardo ma al contrario: il gender è capovolto. Lì c’era la
moglie Amalia che faceva affari loschi con Settebellizze alle spalle del marito
Gennaro, il quale in realtà sapeva tutto ma fingendo di non sapere niente. Qui
invece il blasone alla casa lo dà la moglie Anna Scognamiglio che, tanto per
cominciare, fece lo stesso concorso in magistratura del marito: lei fu
promossa, lui fu bocciato. E dunque Gugliemo Manna non divenne solo l’avvocato
che traffica con le cariche pubbliche, che a Napoli è una vecchia banalità.
Divenne soprattutto “il marito di…” che oggi fa curriculum meglio di un master
a Yale.
Funzionario della Asl, questo Guglielmo Manna (quasi) Scognamiglio cercava dunque di vendere a De Luca la sentenza che la moglie con i pantaloni stava scrivendo in favore di De Luca. In cambio voleva una superdirezione che forse gli spettava o forse no: chi può dirlo nel mondo della sanità napoletana che è il ministero dei misteri? Ma il colpo di scena di Napoli arriva dalla signora giudice con un “cielo mio marito!” che è una doppia opera buffa: “Eravamo separati in casa, stavamo insieme per i due ragazzi”. La giudice riporta così in vita la genialità umoristica di Riccardo Pazzaglia che segava il letto, alzava un muro di foratelli e con la moglie parlava solo in salotto, che era il territorio neutrale delle “visite”. E’ la prima volta che il concetto di separati in casa da fattispecie comica diventa fattispecie giuridica. Dice lei, rivendicando tra le righe l’adulterio: “Ognuno di noi aveva ed ha la sua vita, anche sentimentale, del tutto autonoma”. Ecco, secondo voi, cresce o decresce la comicità?
Se fosse provato che i due si amano in pubblico ma si disprezzano in privato, la corruzione sarebbe derubricata in millantato credito. Insomma uno dei delitti più odiosi, un reato enorme come la corruzione di atti giudiziari, grazie a Pazzaglia, diventerebbe robetta penale, con De Luca vittima tontolone, la giudice Scognamiglio parte lesa, e il marito piccolo millantatore sanguisuga di una moglie che non lo vuole più. Dice il Gennaro di Napoli milionaria: “Nun sapite niente? A Napule è sparito nu piroscafo cu tutto ‘o carico”.
Di sicuro a Napoli “cielo, mio marito!” è più commedia umana che a Palermo dove cupamente il giudice Saguto protegge il suo signor ingegnere Lorenzo Caramma, lo ama come Orfeo amava Euridice e infatti per lui scende negli inferi e gli fa avere incarichi per 750mila euro. “Io sono Dio onnipotente” arriva a esclamare lei per telefono, e quando il marito si lamenta perché l’incarico ottenuto al Cara di Mineo lo fa faticare, la moglie lo rassicura con la tenera virilità con cui Ettore rassicurava Andromaca. Lui: “Silvana, sono ancora per strada, sono morto, io è dalle sei di mattina che sono in giro. Penso di andarci un pomeriggio e una giornata, se per loro va bene”. Lei: “E se no, due giornate. Però vediamo: piano piano, vedendo facendo”. Lui: “Io non ce li ho due giorni liberi!”.
Alla fine, dunque, c’è un bel progresso del costume nel nostro malcostume e in questo nuovo “cielo mio marito!”, che era una nostra frase topos come “il pranzo è servito”. “Cielo mio marito!” è stata infatti la didascalia dell’adulterio quando ancora era “peccato mortale” da comandamento (il nono). Quell’esclamazione, che veniva pronunziata alzando il lenzuolo per coprire le nudità mentre l’amante si infilava nell’armadio o sotto il letto o riparava sul cornicione, è adesso il disappunto della donna al comando che rimpiange di non essere vedova come la Jotti o single come la Anselmi, come la Bindi, come la Bonino… Dalla brama del piacere, “cielo, mio marito!” è traslocato nella brama del potere e l’Italia, che era il paese delle mogli di Cesare, rischia di diventare il paese dei mariti di Elisabetta, dei principi consorti che non sanno stare al loro posto seguendo l’esempio di Joachim Sauer, secondo marito di quella tedesca che entra nei libri di Storia con il cognome del primo marito, Ulrich Merkel morto nel 1982, e sull’esempio di Denis Thatcher che deve alla moglie la fama imperitura del proprio cognome. Anche il Christie di Agatha era il nome del primo marito.
Funzionario della Asl, questo Guglielmo Manna (quasi) Scognamiglio cercava dunque di vendere a De Luca la sentenza che la moglie con i pantaloni stava scrivendo in favore di De Luca. In cambio voleva una superdirezione che forse gli spettava o forse no: chi può dirlo nel mondo della sanità napoletana che è il ministero dei misteri? Ma il colpo di scena di Napoli arriva dalla signora giudice con un “cielo mio marito!” che è una doppia opera buffa: “Eravamo separati in casa, stavamo insieme per i due ragazzi”. La giudice riporta così in vita la genialità umoristica di Riccardo Pazzaglia che segava il letto, alzava un muro di foratelli e con la moglie parlava solo in salotto, che era il territorio neutrale delle “visite”. E’ la prima volta che il concetto di separati in casa da fattispecie comica diventa fattispecie giuridica. Dice lei, rivendicando tra le righe l’adulterio: “Ognuno di noi aveva ed ha la sua vita, anche sentimentale, del tutto autonoma”. Ecco, secondo voi, cresce o decresce la comicità?
Se fosse provato che i due si amano in pubblico ma si disprezzano in privato, la corruzione sarebbe derubricata in millantato credito. Insomma uno dei delitti più odiosi, un reato enorme come la corruzione di atti giudiziari, grazie a Pazzaglia, diventerebbe robetta penale, con De Luca vittima tontolone, la giudice Scognamiglio parte lesa, e il marito piccolo millantatore sanguisuga di una moglie che non lo vuole più. Dice il Gennaro di Napoli milionaria: “Nun sapite niente? A Napule è sparito nu piroscafo cu tutto ‘o carico”.
Di sicuro a Napoli “cielo, mio marito!” è più commedia umana che a Palermo dove cupamente il giudice Saguto protegge il suo signor ingegnere Lorenzo Caramma, lo ama come Orfeo amava Euridice e infatti per lui scende negli inferi e gli fa avere incarichi per 750mila euro. “Io sono Dio onnipotente” arriva a esclamare lei per telefono, e quando il marito si lamenta perché l’incarico ottenuto al Cara di Mineo lo fa faticare, la moglie lo rassicura con la tenera virilità con cui Ettore rassicurava Andromaca. Lui: “Silvana, sono ancora per strada, sono morto, io è dalle sei di mattina che sono in giro. Penso di andarci un pomeriggio e una giornata, se per loro va bene”. Lei: “E se no, due giornate. Però vediamo: piano piano, vedendo facendo”. Lui: “Io non ce li ho due giorni liberi!”.
Alla fine, dunque, c’è un bel progresso del costume nel nostro malcostume e in questo nuovo “cielo mio marito!”, che era una nostra frase topos come “il pranzo è servito”. “Cielo mio marito!” è stata infatti la didascalia dell’adulterio quando ancora era “peccato mortale” da comandamento (il nono). Quell’esclamazione, che veniva pronunziata alzando il lenzuolo per coprire le nudità mentre l’amante si infilava nell’armadio o sotto il letto o riparava sul cornicione, è adesso il disappunto della donna al comando che rimpiange di non essere vedova come la Jotti o single come la Anselmi, come la Bindi, come la Bonino… Dalla brama del piacere, “cielo, mio marito!” è traslocato nella brama del potere e l’Italia, che era il paese delle mogli di Cesare, rischia di diventare il paese dei mariti di Elisabetta, dei principi consorti che non sanno stare al loro posto seguendo l’esempio di Joachim Sauer, secondo marito di quella tedesca che entra nei libri di Storia con il cognome del primo marito, Ulrich Merkel morto nel 1982, e sull’esempio di Denis Thatcher che deve alla moglie la fama imperitura del proprio cognome. Anche il Christie di Agatha era il nome del primo marito.
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